The Jean Michel-Basquiat Show
Dopo le mostre dedicate a Warhol e Haring, la Triennale ospita dipinti e disegni firmati dall'artista di colore, bello e «maledetto»
Siamo ancora a New York, in pieni anni Ottanta. Dopo le mostre dedicate a Andy Warhol e Keith Haring, la Triennale completa l’opera ospitando ottanta dipinti e quaranta disegni firmati Jean-Michel Basquiat, artista di colore, bellissimo e «maledetto», che una morte prematura per overdose (doveva ancora compiere 28 anni) lanciò per sempre nell’olimpo delle stelle il 12 agosto 1988. Warhol, Haring, Basquiat: tre personalità, tre voci diverse e complementari che esprimono quel modo tutto nuovo di concepire l’arte nato a New York all’inizio degli anni Ottanta. Warhol è la mente, il genio smaliziato che con le sue immagini-icona ripetute all’infinito sbeffeggia e sfrutta il consumismo; Haring è l’artista bambino, leggero e ingenuo come i suoi omini, alla ricerca di un sorriso anche nelle tele più disperate; Basquiat è la rabbia, è l’ossessione data dall’eroina che si trasforma in segni e colori violenti. Haring disse di lui: «Tutti e due ci portiamo la morte addosso: io con dolcezza e rassegnazione, lui con furore».
Basquiat nasce a Brooklyn il 22 dicembre 1960, suo padre viene da Haiti, la madre è di origine portoricane. Una famiglia medio borghese che cercherà di assecondare la passione del figlio per l’arte, ma questo non basterà a trattenerlo, a soli 17 anni, senza neanche finire la scuola superiore, Basquiat se ne va di casa. Le sue origini borghesi gli stanno strette, alle casette di Brooklyn preferisce gli appartamenti occupati di Lower Manhattan. E sarà da lì che prenderà il via la «carriera» di graffitista di Samo, questo il nome scelto da Basquiat per firmare le sue opere: più che disegni frasi a effetto «Samo come alternativa al lavaggio del cervello» o istanze più ambiziose «uso le parole come fossero pennellate». Parole e lettere ripetute «a ritmo di rap» che Samo riproporrà in seguito nelle sue tele accanto a segni e colori violenti, a volte rabbiosi. Dalle stazioni della metropolitana alle gallerie di Soho il salto è breve. Siamo a N.Y., è il 1981, l’arte è già business e cosa c’è di più attraente di un giovane artista di colore, ribelle e talentuoso? Bastano una recensione entusiasta e la benedizione di Warhol, che lo prenderà sotto la sua ala protettrice, per decretarne il successo.
Alla firma Samo si sostituisce una maschera nera che diventerà la cifra dei suoi lavori, una sorta di teschio che racchiude in perfetta sintesi due delle grandi suggestioni di cui si nutre l’arte di Basquiat: il mondo magico e atemporale della terra a della cultura africana e la violenza simbolo delle bande metropolitane newyorkesi. I riconoscimenti ufficiali diventano una sfida, i lavori «primitivi» e «istintivi» si trasformano, Basquiat cerca «illuminazioni» più alte, ecco allora comparire, accanto alle immagini tribali e ai segni infantili, scarabocchi alla Twombly, collage alla Rauschemberg, volti deformati alla De Kooning, artisti che lui cita esplicitamente come fonte di ispirazione accanto a Picasso e, primo fra tutti, Debuffet. A 27 anni la sua carriera è all’apice, come la dipendenza dall’eroina. Cercherà di disintossicarsi rifugiandosi alle Hawaii, ma non ce la farà, morirà di overdose pochi mesi dopo la scomparsa di Andy Warhol. Da lì a due anni toccherà a Keith Haring.
«The Jean-Michel Basquiat Show». Triennale, viale Alemagna 6, tel. 02.72.43.41. Orari: mart. dom. 10.30/20.30.
da Vivimilano
1 Commenti:
Obbligatorio andarci!
9/22/2006 10:01 AM
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